Bioraffinerie integrate per la valorizzazione di biomasse di scarto: un ponte tra le filiere agro-alimentare e conciaria
A cura di Cinzia Pezzella, Dipartimento Scienze Chimiche dell’Università di Napoli “Federico II”
Contributo apparso su CPMC II/2023
La bioeconomia è definita come “il sistema socio-economico che comprende e interconnette quelle attività economiche che
utilizzano bio-risorse rinnovabili del suolo e del mare – come colture agricole, foreste, animali e micro-organismi terrestri e marini – per produrre cibo, materiali ed energia”[1]. La Strategia Italiana per la Bioeconomia (BIT) [1] individua nella bioeconomia una spinta propulsiva verso l’innovazione di settori maturi come quelli delle materie prime, della produzione energia e intermedi, a favore di una sostenibilità ambientale, economica e sociale a lungo termine. La bioeconomia rappresenta infatti una risposta alle sfide di natura: (i) Ambientale, poste dal cambiamento climatico e dalla necessità di ridurre le emissioni serra; (ii) Economica, conseguenti al depauperamento delle risorse fossili; (iii) Sociale e legate alle Politiche Agricole, ossia alla necessità di promuovere lo sviluppo regionale e rurale anche in aree marginali e/o a rischio, consentendo al contempo la creazione di posti di lavoro; (iv) Energetica, collegate alle precedenti, e incentrate sulla necessità di diversificare le fonti di energia. Pertanto, la bioeconomia contribuisce all’attuazione di alcuni dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile [2], dell’Agenda 2023 promuovendo una maggiore giustizia economica, sociale ed ambientale.
In questo scenario, il concetto di bioeconomia si sposa con quello di bioraffineria, intesa come un sistema che consente il processamento efficiente ed economicamente vantaggioso delle biomasse. L’integrazione dei processi utilizzati in una bioraffineria conduce ad una una molteplicità di prodotti, garantendo l’“auto-sostenibilità” della bioraffineria stessa in termici economici e minimizzando l’impatto ambientale. Il termine “bioraffineria” è diventato un “trending topic” negli ultimi anni, testimoniato dal crescente numero di pubblicazioni scientifiche sul tema (fonte Scopus). Elemento chiave per la progettazione di una bioraffineria è rappresentato dall’utilizzo efficiente delle risorse rinnovabili (colture dedicate che richiedono poche risorse e/o scarti di lavorazione della filiera agro-alimentare, raggruppabili come “biomasse”), secondo la logica di una loro valorizzazione “a cascata”, in cui tutte le componenti della biomassa sono trasformate in prodotti ad alto valore, e non esistono scarti senza valore. L’eterogeneità e complessità delle biomasse di partenza si traduce in una molteplicità di tecnologie di trasformazione, ispirate ai principi della “chimica verde”, ed in continuo aggiornamento, volte ad ottenere nuovi prodotti, anch’essi in continua evoluzione. Di particolare interesse risulta l’utilizzo di biomasse derivanti da scarti di produzioni
agricole e alimentari, legate al territorio mediterraneo, utilizzate per la produzione di prodotti energetici (bioetanolo, biometano,
biodiesel, etc.), prodotti chimici (bulk e fine chemicals), supplementi alimentari per consumo umano e animale, biomolecole per
applicazioni farmaceutiche e cosmetiche, materiali polimerici [3,4]. In tale contesto, il Dipartimento di Scienze Chimiche dell’Università Federico II ha sviluppato bioprocessi finalizzati alla trasformazione di biomasse vegetali di seconda generazione (il cardo selvatico) in materiali polimerici e additivi utilizzati per la formulazione di materiali biodegradabili per il packaging alimentare. I risultati ottenuti nell’ambito del progetto PRIN “Cardigan” [5] hanno condotto alla realizzazione di nuovi materiali basati su una classe di poliesteri microbici, i poliidrossialcanoati (PHA), di particolare interesse per la loro origine rinnovabile e la dimostrata biodegradabilità in ambiente terrestre e marino [6]. Aspetto cruciale della ricerca è rappresentato dalla messa a punto di processi “green” di pretrattamento delle biomasse (basati sull’impiego catalizzatori enzimatici e solventi biobased) necessari a rendere disponibili le fonti di carbonio ai microorganismi utilizzati nei processi fermentativi per la produzione di PHA. Da qui, la ricerca mira ad estendere l’approccio sviluppato a diverse biomasse (scarti dell’industria alimentare),
sfruttando la possibilità di modulare la composizione monomerica del polimero, e le risultanti proprietà, agendo sui pathway
di sintesi e sulle fonti di carbonio fornite al microorganismo. L’idea è quella di ampliare la gamma di PHA sintetizzati, estendendo il range di applicabilità a settori non ancora esplorati, tra cui quello conciario, mirando a formulazioni polimeriche utilizzabili nella fase di finishing delle pelli, in alternativa ai tradizionali materiali di origine non rinnovabile. Nell’ottica di una completa valorizzazione delle biomasse utilizzate, è utilizzato un approccio a cascata secondo la logica di pretrattamento “lignin-first”, finalizzata al recupero della lignina (costituente, di fatto, un ostacolo fisico per l’accesso alla frazione polisaccaridica fermentabile) e al suo reintegro nella fase di riconcia delle pelli. L’integrazione tra la filiera agro-alimentare
e quella delle pelli, mediante l’utilizzo di bioprodotti derivanti dalla trasformazione di biomasse di scarto in varie fasi del
processo conciario, rappresenta uno degli obiettivi del progetto “SOLARIS Sustainable Options for Leather Advances and Recycling Innovative Solutions”, recentemente finanziato nell’ambito del Partenariato esteso “Made in Italy Circolare e Sostenibile” nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, Missione 4 “Istruzione e ricerca” – Componente 2 “Dalla ricerca all’impresa” – Investimento 1.3, finanziato dall’Unione europea – NextGenerationEU, che vede impegnati, tra gli altri attori, il Dipartimento di Scienze Chimiche della Federico II e la Stazione sperimentale per l’industria delle pelli e delle materie concianti (SSIP).
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